Una conversazione con Gruppo Uror (Evelina Rosselli e Caterina Rossi), a margine dello spettacolo Rosso Reloaded.
Che ruolo ha la dimensione della favola, e che funzione hanno le marionette in relazione al tema della morte?
La favola è stata solo un punto di partenza, uno spunto iniziale. Durante la creazione dello spettacolo, l’abbiamo progressivamente lasciata andare: è rimasta come un ricordo, ma ha continuato a ispirarci. Cappuccetto Rosso è una favola che ci offre la possibilità di esplorare non solo la scoperta di sé e della vita, ma anche – e soprattutto – della morte.
Il tema del dualismo vita/morte è molto presente ed emerge grazie all’utilizzo della marionetta: infatti è un oggetto inanimato, ma al tempo stesso è viva. Questo paradosso è centrale: inizialmente ci si illude che sia viva, anche se in realtà non lo è mai stata. Anche noi, come artiste, abbiamo cercato di esplorare questo mistero attraverso uno sguardo bambino, che gioca per cercare di capire il nostro mondo, creandone uno parallelo.
Quali sfide avete affrontato come attrici utilizzando maschere e marionette?
La maschera, come la marionetta, è allo stesso tempo un’amica e una nemica per noi attrici. Da un lato è una nemica perché riduce l’espressività del volto e le movenze del corpo; dall’altro però, permette di relazionarsi a stili e linguaggi inusuali. Grazie a Rosso Reloaded abbiamo sperimentato le possibilità del teatro di figura sul quale continueremo a lavorare.
Nella favola di Cappuccetto Rosso la madre cerca di proteggere la figlia dai pericoli. Nel vostro spettacolo quali sono le preoccupazioni della madre?
La protezione che un genitore desidera offrire non nasce dal desiderio di limitare, ma dall’eredità di esperienze passate, dure e sofferte, che ci si augura il figlio non debba mai rivivere. Nel nostro spettacolo la madre tenta di proteggere la figlia attraverso un linguaggio duro, che cela però un intento profondo: coinvolgerla in ciò che, ai suoi occhi, conta davvero. Ricordarle che l’unica cosa veramente importante è il suo corpo e la sua vita, e che non può permettersi, in nessuna circostanza, di disperdere la propria anima: un gesto di amore puro e disinteressato. Crescere è un processo violento e cruento: un cambiamento improvviso che crea un distacco sempre più netto tra la realtà fantasiosa e illusoria dell’infanzia e quella cruda e indifferente dell’età adulta. Diventare grandi non implica necessariamente perdere una visione incantata della vita, ma la durezza dell’esistenza è spesso dolorosa e traumatica. Chiudersi in casa non serve; distanziarsi dalla paura, iniziare a condurre la propria vita secondo i propri desideri, anche ignorando le indicazioni di chi tiene a noi, serve per crescere.
Come vedete il teatro di oggi? Come immaginate il teatro del futuro?
Il nostro teatro nasce da una lunga ricerca: anni di prove, errori, esperimenti. Non è “sperimentale” perché strano, ma perché davvero cerca, prova, sbaglia. Oggi si usa spesso questa parola come etichetta, dimenticando che ad essere sperimentale è il procedimento, il metodo di ricerca che, proprio come in campo scientifico, è fatto di ipotesi, esperimenti ed errori. Noi costruiamo partendo da ciò che funziona sulla scena, tante cose non arrivano neppure alla versione finale dello spettacolo. E crediamo che il dialogo col pubblico sia fondamentale: senza il suo sguardo, lo spettacolo resta chiuso, incompleto. Il teatro serve anche a ricordarci che non tutto va logicamente come dovrebbe. C’è un’altra parte della realtà più istintiva, più umana, che l’arte permette di esplorare. Il teatro che ci interessa è quello che inventa nuovi mondi, che scompone e ricompone il reale.
E tra dieci anni?
Speriamo si mantenga vivo il rapporto con il corpo sia di chi lo fa, sia di chi vi assiste. Non possiamo permettere che corpi vivi e presenti, siano sostituito dalla tecnologia. Finché abbiamo un corpo, il teatro deve rimanere un’arte della presenza.
a cura di Mattia Aiello, Leonardo Borghini, Altea Briola, Filippo Lolli, Maria Laura Maltagliati