L’arte di stare a galla: “Affogo” di Dino Lopardo

Nicholas, vittima e carnefice, sogna di diventare un campione di nuoto, ma teme l’acqua.

«Se non reagisci affoghi», dice Nicholas alla sua papera stringendola fra le mani. Ma reagendo puoi salvarti? Si può affogare in una piscina, in una vasca da bagno o ancora nel disagio di una famiglia o di una società che non ti comprende. In un sistema in cui la violenza sembra essere l’unico strumento di relazione con l’altro, Affogo – scritto e diretto da Dino Lopardo – cerca di raccontare il complesso tentativo di trovare un’alternativa.

 

Il palcoscenico è diviso in due piani da un velo, così come Nicholas – interpretato da Mario Russo – è diviso fra due realtà: è bambino e adulto allo stesso tempo, vive gli effetti di un passato che continua a incombere alle sue spalle e che lo spinge a confondere il presente con l’incubo della sua infanzia. Affogo mostra il rapporto complicato con gli zii Antonio e Luisa che non riescono a comprendere Nicholas, con una madre assente, con il fratello Samuele a cui è morbosamente legato, uno spettro del passato che pervade ancora la sua mente. In un paesino del sud Italia, permeato da una violenza in cui affogare è inevitabile, la normalità è schiacciare per non essere schiacciati: il fallimento non è contemplato, meglio non puntare alla luna, non cercare di andare oltre ma continuare a stare a galla.

 

Sulla scena, in primo piano una vasca da bagno, utilizzata dal protagonista come rifugio dal contesto familiare, e illuminata a intermittenza, come il frammentato riaffiorare a galla dei ricordi. Nicholas si sfoga con sé stesso e con QuaQuà, una paperella di peluche, incarnazione e immagine della sua infanzia, che assiste come vittima silenziosa ai suoi sfoghi deliranti e carichi di rancore. In secondo piano vengono invece rievocati i ricordi dei soprusi subiti, le immagini brutali, la violenza verbale e fisica esercitata dalla comunità del paese nei confronti del fratello. I toni aspri del dialetto calabrese creano un ponte diretto con la dimensione soffocante della provincia e restituiscono l’aggressività di una generazione precedente che nell’ignoranza istruisce con la violenza.

 

Un odio, una brutalità che diventano palpabili nelle parole e negli sguardi di Russo, che entra in diretto contatto con il singolo spettatore creando con ciascuno un assordante dialogo. Nicholas è crudo, volgare, grottesco e quindi estremamente vero. L’ironia sprezzante con cui il protagonista racconta le diverse situazioni nasconde in realtà una sofferenza che viene gradualmente percepita dal pubblico, costringendolo a rimanere in un’apnea collettiva. Un urlo che vorrebbe rimbombare nel vuoto ma resta senza fiato.

 

Nel personaggio di Nicholas si manifestano tutti i sentimenti repressi di un carnefice che però è tale soltanto perché a sua volta è stato vittima. Vittima proprio perché schiacciato fra la famiglia e l’aria soffocante di una piscina, e carnefice perché indifferente e complice di una realtà che non riesce a sovvertire.

 

Affogo stratifica la complessità di un male radicale che non riesce a essere estirpato attraverso il ricambio generazionale: sembra impossibile sradicarlo. Il disagio provato da Nicholas nei confronti di questa immobilità può essere espresso solo all’interno di un bagno chiuso a chiave e attraverso lo sfogo personale che lo isola. La dimensione onirica, soffocante e polverosa della confessione dell’esperienza personale rivela la sua paura di sbagliare.

 

Dino Lopardo in Affogo condivide l’oppressione che aleggia nella realtà in cui è cresciuto e l’abbandono da parte di chi doveva proteggerlo e non affogarlo. Questo isolamento, questa brutalità, se incontrastata, rischia di proliferare e trasformarsi nella norma. «L’uomo abbandonato a sé stesso è troppo cattivo per essere libero».

 

Alice Bolgiani, Demetra Cicognini, Aldrich Darren Mercado Dela Fuente, Lucia Montino, Lorenzo Polletta, Carlo Rocchi, Mattia Blu Tacconi

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