Un dialogo con Dino Leopardo e Mario Russo, autore e interprete di Affogo.
Durante il primo giorno del festival Tutta la vita davanti, abbiamo avuto l’opportunità di incontrare Dino Lopardo e Mario Russo, rispettivamente autore e interprete dello spettacolo Affogo. Il protagonista Nicholas, un ragazzo tormentato da un passato violento e da un presente di insoddisfazione, ha come unica confidente un’anatra di pezza, quasi una traccia di quella favola che, ascoltata più volte sin dall’infanzia, gli rammenta le possibili conseguenze di qualsiasi fallimento, di quella debolezza che ci rende incapaci di reagire ai soprusi. E tuttavia l’anatra non è il solo animale a essere menzionato nella drammaturgia: quasi a contrapporre un’immagine di forza, scaltrezza, resistenza, Nicholas sogna di poter essere un gatto.
Nicholas si immedesima più in un’anatra o in un gatto?
Mario Russo: Nicholas si è sempre sentito un’anatra: spaventato dal giudizio altrui, non in grado di opporre resistenza alla violenza che subisce. E tuttavia gli episodi di bullismo subiti dal fratello lo spronano a reagire, a comportarsi come quel gatto che vorrebbe essere. Dentro Nicholas convivono la forza del gatto e la debolezza dell’anatra, che si rivelano a seconda del contesto. Ecco che il bagno diviene un luogo dove esprimere le proprie emozioni, e conciliare le due anime che in lui albergano, lo spazio in cui affrontare le proprie emozioni, le paure, i sogni. Al di fuori di quel bagno, Nicholas è solamente un’anatra.
Come reagisce Nicholas alla violenza?
Dino Lopardo: Con altrettanta violenza. Crescendo, Nicholas sembra fare i conti con il suo passato difficile, eppure questa reazione confonde i ruoli della vittima e del carnefice, suscitando in lui tanto rabbia quanto paura. La violenza di cui è artefice nasce da una serie di fattori: da un disagio culturale, da istituzioni assenti e deboli, da una famiglia in cui i rapporti sono contraddistinti da indifferenza, negligenza, ferocia. Nicholas prova rabbia nei confronti della società, nonostante conservi un caloroso ricordo della maestra di scuola. Eppure in Affogo proviamo anche a denunciare, in chiave grottesca, proprio il ruolo degli insegnanti, spesso caratterizzato da una brutale frustrazione, originata dal dolore di non essere riusciti a far fiorire le proprie passioni. È capitato anche a me. Allo spettacolo di fine anno, in terza media, i docenti mi hanno chiaramente detto che non sarei stato in grado di recitare. Io tuttavia ho avuto la forza di reagire, e su questa esperienza ho costruito una carriera. Queste istituzioni spesso non riconoscono le ambizioni e le potenzialità di coloro a cui dovrebbero insegnare. Con Affogo tento di dare voce ai ragazzi e alle ragazze che sognano.
Nicholas parla in dialetto calabrese: perché la scelta di mantenere il dialetto?
M.R.: Il dialetto conferisce maggiore potenza, autenticità, violenza e rabbia. È la lingua che ho parlato e ascoltato per tutta la mia vita: riesce a esprimere perfettamente tutto quello che sento. Ciò che provo riesce, nel dialetto, a emergere senza filtri. Cambiandone la lingua, lo spettacolo non avrebbe lo stesso impatto.
D.L.: Lo spettacolo è più di pancia che di testa, non perché manchi di ragionamento, ma perché non vuole proporre una filosofia, piuttosto restituire qualcosa che sentivamo dentro. Ho tagliato dal testo alcune sezioni eccessivamente divulgative, che ne avrebbero diminuito l’impatto, così da porre a nudo il cuore dello spettacolo e ottenere un contatto più diretto con il pubblico.
M.R.: Anche il momento della rottura della quarta parete, in cui si accendono le luci in sala e cerco un contatto con gli spettatori, avvicina Nicholas al pubblico. Senza di esso, Nicholas, costretto a parlare sempre da solo, confinato in una vasca da bagno, risulterebbe un personaggio più problematico, meno comprensibile. In questo modo il pubblico riesce a immedesimarsi più facilmente in Nicholas. Sfondare la quarta parete ci è sembrato necessario per conferire maggiore autenticità allo spettacolo. Gestire le reazioni del pubblico, che sono sempre diverse, impone costanti modifiche allo spettacolo, spesso migliorandolo.
Come vedete il teatro di oggi?
Come immaginate il teatro del futuro?
D.L.: Oggi a teatro manca il racconto di storie che riescano a coinvolgere il pubblico. Le sale sono ormai piene soltanto di operatori del settore, e non di gente comune. Dobbiamo tornare a mettere al centro del fatto teatrale le immagini: un’immagine fa viaggiare con la mente lo spettatore, gli permette di creare la sua storia. In Affogo, la scena del cigno è l’immagine di una persona che vuole emergere, e che ciò nonostante è costantemente abbattuta dalla società. Ma sono comunque fiducioso. Nelle scuole, incontrando studenti e ragazzi, riusciamo a ritrovare il senso che noi diamo al teatro, ovvero quello educativo e formativo. Abbiamo la responsabilità di restituire allo spettatore un’opera capace di dare origine più a domande che a risposte: io non sono nessuno per dare delle risposte.
a cura di Jary Lazzerini, Sara Passariello, Alessandra Pianon, Jacopo Sanchez Arcos