Una conversazione con Francesca Astrei, a margine dello spettacolo “Mi manca Van Gogh”
Perché hai scelto di mettere in relazione una storia di cronaca con la storia dell’arte e in particolare con il rapporto tra Van Gogh e suo fratello Theo?
Quando ho iniziato a lavorare a questo spettacolo sapevo di volere raccontare di “chi resta”, di chi sta accanto. Non pensavo che avrei parlato di Van Gogh, ma mi hanno sempre interessato la storia dell’arte e i libri epistolari, i diari. Leggendo le lettere tra Vincent Van Gogh e suo fratello Theo sono rimasta colpita dal loro rapporto: pochissimo tempo dopo il suicidio di Vincent, Theo viene ricoverato in una clinica e muore due anni dopo. Mi ha colpito come questo dolore fosse così grande da far avvicinare in qualche modo “chi resta” alla persona assente. Quando ho letto la notizia di cronaca di cui parla lo spettacolo mi sono chiesta subito cosa avesse provato l’amica della vittima dopo il suo suicidio: questo pensare di nuovo al chi resta mi ha subito riportata a Theo. La relazione tra Theo e Vincent è anche un modo di allargare il discorso: non volevo parlare di un caso specifico, ma prenderlo come punto di partenza per una riflessione più ampia. Per questo ho anche incluso nello spettacolo alcuni elementi, come l’accento campano o il foulard arancione, che non appartengono realmente a questa storia ma ad altri casi di revenge porn.
Questo spettacolo per te è un atto di denuncia?
“Denuncia” non mi sembra la parola più adatta. È più che altro un invito a prenderci il tempo di pensare a temi importanti: la violenza, il suicidio, ma anche, come dicevo, le difficoltà di chi resta. Mi interessava raccontare una storia, piuttosto che esprimere una posizione. Nella scrittura ho cercato di non dare giudizi: la denuncia sta nella scelta stessa di portare in scena questa vicenda. Di revenge porn si sa poco — si inizia a parlarne ora — e anche a livello legislativo le norme sono vaghe. Veniamo a conoscenza solo di alcuni casi, perché sono molte le persone che nascondono la violenza che hanno subito: soprattutto tra gli adolescenti, non tutti trovano il coraggio necessario per farlo. Io volevo parlare di questo, non dal punto di vista di chi ne è protagonista, ma di chi è coinvolto stando a fianco.
Quando un artista interpreta una storia di dolore, spesso porta in scena non solo corpo e voce, ma anche i propri sentimenti. Hai sentito il bisogno di “proteggerti” emotivamente durante la stesura dello spettacolo oppure hai scelto di lasciarti attraversare completamente dal dolore del personaggio?
Un aspetto non esclude l’altro. Abbandonarsi a un’emozione non implica necessariamente farsi male o non proteggersi. È invece proprio il tentativo di lottare contro le emozioni o di forzarle a rendere il “gioco” del teatro davvero rischioso. A me piace raccontare l’essere umano da essere umano e questo implica il mescolarsi inevitabile delle emotività dell’uno e dell’altro. È proprio la nostra vulnerabilità a portarci di fronte all’esigenza di scrivere, interpretare, dipingere qualcosa: non scriveremmo mai di una storia in cui va tutto bene dall’inizio alla fine. Io credo fortemente che alla base di un’idea artistica ci siano sempre delle fragilità e degli interrogativi emotivi.
Nello spettacolo c’è una forte componente ironica. È un modo di ridere per non piangere o c’è anche altro?
Mi piace quando le cose si mescolano e penso che sia una dinamica molto più frequente di quanto pensiamo. Siamo abituati a pensare che uno spettacolo possa essere o comico o drammatico, però queste sono definizioni che nella vita non utilizziamo. Non penso che esista una vita comica o una vita drammatica: momenti estremamente divertenti ed estremamente delicati si intersecano e si sovrappongono, anche quando non vorresti. Per me è importante, per gusto di scrittura, che le cose si mescolino come accade nella vita quotidiana.
Come calibri i tempi e i modi della comicità nella relazione con il pubblico?
È più naturale di quanto non sembri. Nello spettacolo ci sono momenti che favoriscono l’interazione e la comicità: l’obiettivo per me era creare l’illusione di andare in una direzione per poi portare il discorso da un’altra parte.
L’alternanza di aspetti comici e drammatici, battute e momenti seri viene già dalla narrazione in sé. Molto di questo ha preso forma nelle repliche fatte nelle scuole; è difficile interessare i giovani ed è molto facile per loro distrarsi. Tante battute del testo sono nate dall’interazione con i ragazzi: improvvisare è una cosa che mi piace tantissimo e mi porta poi a scegliere cosa tenere.
Come vedi il teatro di oggi? Come immagini il teatro del futuro?
Mi sembra che sia in corso una ricerca preziosissima di linguaggi e forme, che si contrappongono a modi di entrare in relazione che implicano distanza, schermatura, autogestione del tempo e dello spazio. Paradossalmente la ribellione, oggi, consiste nell’andare a scardinare tutto questo. Per il teatro è diventato ancora più raro potersi concedere uno spazio-tempo condiviso in cui accade qualcosa insieme: ma è un’esigenza che sta tornando quindi sono fiduciosa per il futuro.
a cura di Giacomo Bargagni, Chiara Bosisio, Demetra Cicognini, Viola Salvadori